Il Teatro di Josep Maria Miró è di casa al Teatro di Rifredi
Roberto Rinaldi, «Articolo 21».
Il drammaturgo catalano Josep Maria Miró nel volume Teatro edito in Italia da Cue Press, ha pubblicato quattro delle sue opere teatrali, tra le più conosciute, Il principio di Archimede, Nerium Park, Dimentichiamoci di essere turisti, Tempi selvaggi: ed è quest’ultimo titolo ad aver vinto il Premios Max de Las Artes Escénicas (giunto alla ventiduesima edizione), ricevendo anche il Premio per la miglior regia consegnato a Xavier Alberti, direttore artistico del Teatre Nacional de Catalunya che lo ha prodotto. Un allestimento premiato dai giurati del Premios Max: il più importante riconoscimento in Spagna conferito dalla Fundación SGAE. I testi di Miró in Italia sono stati tradotti da Angelo Savelli, regista e codirettore artistico del Teatro di Rifredi, insieme a Giancarlo Mordini. Nel frattempo oggi, venerdì 24 maggio, ci perviene da Siena durante lo svolgimento di In – Box dal vivo, la notizia del Premio TOC 2019 consegnato a questo Teatro capace di aver creato una comunità tra gli spettatori, inclusiva non solo per l’offerta artistica, quanto e più importante, essere stati in grado di coltivare rapporti sociali e umani sul territorio della città di Firenze. Il cosiddetto «luogo deputato allo spettacolo» (in passato i teatri erano definiti anche così: «luogo in cui un’azione, un evento può realizzarsi o riuscire al meglio»), è diventato la seconda casa degli spettatori. Il Tavolo Etico di C.Re.S.Co conferisce al Teatro di Rifredi: «Il titolo di Teatro d’Origine Certificata 2019 per la cura che profonde quotidianamente nell’attuazione dei principi di trasparenza, concorrenza leale, dignità del lavoro e del lavoratore che sono le fondamenta del codice di responsabilità approvato dal coordinamento. Il premio è assegnato per conto di 407 operatori, organizzatori, artisti, compagnie su 756 votanti».
Riavvolgendo il nastro all’indietro è necessario ricordare, come la presentazione del volume Teatro a Firenze, sia stata resa possibile grazie anche alla collaborazione dell’Institut Ramon Liull di Barcelona. L’editore CuePress è un prezioso contributo per conoscere uno dei drammaturghi europei più conosciuti e affermati, capace di raccontare storie di ordinaria quotidianità virandoli sul piano delle relazioni umani: aspetti psicologici da svelare nella loro complessità. Nel Prologo del corposo testo, Xavier Alberti scrive: «Quattro architetture di parole che rispondono all’espulsione di un malessere, un malessere provocato dalla chiara presa di coscienza di aver abbandonato i tempi postmoderni e di star avanzando verso un’apocalisse che, come società, e probabilmente, anche delle nostre più elementari condizioni di sopravvivenza. L’abbandono della post modernità ha invalidato le funzioni meta culturali del teatro contemporaneo e gli imposto di nuovo l’urgenza di testimoniare un malessere».
Josep Maria Mirò è stato messo in scena per la prima volta in Italia dal Teatro di Rifredi nel 2018 con Il principio di Archimede nell’allestimento curato da Angelo Savelli. Uno spettacolo a cui la critica e il pubblico hanno decretato un successo unanime sia per la direzione registica che per la recitazione dei quattro eccellenti protagonisti: Giulio Corso, Monica Bauco, Riccardo Naldini e Samuele Picchi. Nel mese di marzo scorso Il Nuovo Teatro Sanità di Napoli il regista Mario Gelardi ha diretto al Teatro di Rifredi, Nerium Park con l’interpretazione di Chiara Baffi e Alessandro Palladino.
Josep Maria Mirò è nato a Vic in Catalogna nel 1977, si è diplomato in regia e drammaturgia all’Istituto del Teatro di Barcellona e in giornalismo all’Università Autonoma di Barcellona. Giornalista radiofonico è anche professore di drammaturgia all’Università di Girona e docente di arti sceniche alla Scuola Superiore di Cinema e Audiovisivi di Catalogna. Le sue opere sono tradotte in quindici lingue e vengono rappresentate in altrettante nazioni. Un drammaturgo capace di rappresentare le tante contraddizioni della contemporaneità. La paura irrazionale è il filo conduttore drammaturgico de Il Principio di Archimede visto a Rifredi dove il regista Angelo Savelli ne ha ha curato la traduzione dal catalano, con la collaborazione di Josep Anton Codina. Ne avevamo scritto nel 2018 dopo aver assistito alla rappresentazione a Rifredi.
Una scelta artistica di grande pregio e meritevole di essere riportato in scena per aver colto quanto sia attuale – nel nostro presente storico sociale – la necessità di scegliere un argomento all’ordine del giorno: la diffusione di notizie tramite i canali dei media e dei social network, facilmente manipolabili […] Il Principio di Archimede parla alla contemporaneità del nostro agire e vivere quotidiano, lacerato da profonde contraddizioni e inquietudini; causate in primis da una forma sempre più disgregante che colpisce le relazioni e i rapporti tra gli individui. Della forma ne scrive nel programma di sala dello spettacolo, (andato in scena in prima nazionale il 15 febbraio 2018 al Teatro di Rifredi, in esclusiva italiana e alla presenza dell’autore): «La rappresentazione si concentra sulle dinamiche interpersonali e sociali che si scatenano implacabilmente a partire da un evento la cui realtà o falsità diventa del tutto influente rispetto agli effetti che produce».
L’occasione per rivedere e incontrare Josep Maria Mirò si palesa dopo Nerium Park: l’invito a rilasciare un’intervista viene accolto con la sua spontaneità che lo contraddistingue come persona ben distante da ogni forma di auto referenzialità.
La lunga conversazione si rivela densa di contenuti e spunti critici per affrontare non solo l’argomento strettamente legato al suo percorso artistico teatrale, quanto una disamina sulla cultura che caratterizza la nostra società.
«Il mio è un teatro di parole che rompe lo schema del metateatro per tornare a quello che da valore al linguaggio e alla drammaturgia» come aveva scritto Pier Paolo Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro (pubblicato nel 1968 per polemizzare con il teatro borghese ufficiale definito teatro della chiacchiera e con gli spettacoli d’avanguardia teatro del gesto e dell’urlo, a difesa dello scrittore della parola, ndr). La traduzione in italiano dei miei testi la considero un onore perché è una lingua sorella della mia e voglio ringraziare Angelo Savelli e Giancarlo Mordini che mi hanno dato l’opportunità di ascoltare le mie opere in italiano, così come dico grazie anche a chi ha deciso di rappresentarle in altre lingue. Questo mi permette di essere più generoso e di vedere un altro modo di mettere in scena gli spettacoli. Il testo drammaturgico è una partitura fino al momento finale della messa in scena non si capisce cos’è; il teatro è parola ed è viva perché la lingua evolve in continuazione. Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita, affascinato dalla possibilità di creare attraverso il linguaggio una creazione. Noi inventiamo storie, le manipoliamo, le travestiamo ma poi in teatro cerchiamo di raccontare la verità attraverso la parola agita e l’emozione. È importante che il risultato, per come sono strutturate le battute, sia quello di creare una comunicazione con degli essere umani, toccando il loro stato d’animo e i loro pregiudizi. Nel mio teatro la cosa più importante è la parola, la materia prima del mio teatro. Per quanto quotidiana possa sembrare, la parola in teatro si struttura come una precisa partitura con implicazioni ideologiche ed emotive. Io stesso scrivo drammaturgie di cui non ho una risposta ma quando inizio a farlo è un’esperienza meravigliosa per aprire una discussione su questi temi che non hanno risposta. Una seconda fase è quella della riflessione condivisa e la terza è rappresentata dal debutto – ci spiega Josep Maria Mirò -, il momento in cui consegniamo questa domanda allo spettatore. Io non mi azzarderei mai a fare un teatro che dia una risposta, perché io non ne possiedo. Il teatro borghese è quello dove lo spettatore va a vedere per quello che lui pensa di dover partecipare come cittadino. Parafrasando Xavier Alberti posso dire che un teatro che inizia con una domanda ha tutto il tempo per trovare una risposta.»
Tempi Selvaggi vincitore del Premios Max è ambientato in una zona residenziale composta da quattro appartamenti con prato e piscina dove ci abitano quattro coppie. Ivana è uno dei personaggi la quale chiede: «Questo è un bel posto da viverci?». Mirò spiega che è una delle frasi: «Passata in tutti i miei testi. Non parla di architetture né di paesaggi. Parla di alcuni intangibili diritti/doveri che dobbiamo costruire attraverso l’etica e il dialogo e che hanno a che fare con i nostri stessi valori e patti di convivenza con gli altri. Vuole chiedere se noi come esseri umani siamo riusciti a costruire uno spazio migliore in cui vivere. Anche io mi chiedo se abbiamo generato un posto bello per vivere in un territorio dove muoiono migliaia di persone cercando di attraversare i nostri mari; dove viviamo con il costante e doloroso conteggio di vittime della violenza maschilista; dove ci sono cittadini di prima e seconda categoria; dove si preferisce salvare le banche piuttosto che le persone; dove non c’è separazione di poteri; dove c’è chi viene privato di libertà per pensare e difendere certe idee; dove c’è gente della cultura alla quale si nega loro un diritto fondamentale come la libertà di espressione e di creazione. È una domanda che mi pongo come cittadino pure io: dov’è un posto in cui vivere? Il Mediterraneo cristallino e azzurro dove cercano di rifugiarsi migliaia di rifugiati? È un posto bello dove vivere? In una paese dove le persone vengono incarcerate per le loro idee è un bel posto dove vivere?».
Anche Xavier Alberti cita questa frase assunta quasi a dichiarazione d’intenti del drammaturgo, spiegando nel Prologo del volume Teatro. I testi di J.M.Mirò di aver visto stampato su una maglietta indossata da Mirò la frase «È un bel posto per vivere questo?», regalata dalla Compagnia in occasione del debutto di Tempi Selvaggi. E la conversazione ad un certo punto vira anche sul teatro italiano. Mirò ammira in particolare uno dei drammaturghi più celebri.
Che idea ha della drammaturgia teatrale italiana. Quali sono gli autori che preferisce e che conosce meglio?
«Eduardo De Filippo è stato un grande costruttore di teatro attraverso il linguaggio. Ne ho parlato anche con Josep Benet I Jornet, (considerato uno dei massimi autori del teatro spagnolo e il padre della drammaturgia catalana, ndr) al quale ho detto che l’uomo artista italiano che ho amato di più è De Filippo perché aveva la capacità di fare teatro di alta qualità popolare. Sapeva affrontare temi importanti senza mai escludere nessun spettatore – cittadino seduto in platea. La sua lingua veniva riconosciuta universalmente da tutti e il meccanismo sul quale ha lavorato di più è stata la parola. Il teatro è una cosa meravigliosa perché noi siamo capaci di costruire una menzogna, e lo spettatore che sa di andare a vederla incontrerà anche la verità e le emozioni suscitate dallo spettacolo. A volte qualcuno sta male per quello che vede ma questo non va bene. Se riusciamo a discutere insieme agli spettatori questo significa che il teatro ha anche una funzione di politiche culturali. Siamo una collettività che condivide sentimenti e valori. Andare a teatro è una revisione intima e collettiva nel partecipare alla visione di una ‘favola’».
E lei come autore drammaturgo teatrale come si definisce?
«Quando mi chiedono il mio punto di vista come autore so di avere una mia versione personale ma non possiedo la verità in quello che scrivo. Bisogna invece costruire i personaggi attraverso le loro verità. Nel Il Principio di Archimede tutti e quattro i personaggi possono avere ragione, dire la loro verità. In Nerium Park si parte da una coppia che ha una visione condivisa, ma al momento che inizia la scansione dei mesi iniziano ad evidenziarsi delle divisioni tra la società e loro stessi. In un primo momento si pensa che sia una coppia dotata di affinità elettive, poi nel momento in cui non riescono a trovare delle intese tra di loro, non realizzeranno un progetto di vita comune. Mi viene da pensare alla politica che è dialogo se ascoltare l’altro. Per me è importante riuscire a fare un teatro dove sia possibile sollecitare una riflessione condivisa mentre la politica non è capace di far nascere progetti di integrazione. Io insisto nel dire che è necessario fare un teatro capace di suscitare un pensiero e sviluppare occasioni per incontrare l’altro e non espellerlo. Stiamo vivendo un momento storico dove la politica vede tutto bianco o nero e si assiste ad una polarizzazione ad una cultura del populismo. Il fascismo è un fenomeno sempre più globale e non locale».
L’attesa di rivedere un altro testo di Mirò è paragonabile ad un momento di suspense prima di una gara: non vedi l’ora di come vada a finire tanto è la sua capacità di coinvolgerti nell’azione drammaturgica della storia costruita per continui cambi di registro. Il claustrofobico appartamento di Nerium Park è abitato da una giovane coppia la cui vita condominiale sembra iniziare nel miglior e dei modi ma dall’idillio iniziale si passerà ad una sorta di incubo, fino ad una separazione dal tragico finale. Da subito si percepisce però una dicotomia tra la scrittura teatrale e la resa registica: le scene evolvono seguendo le didascalie previste: 12 scene per altrettanti mesi di convivenza in cui non si riesce quasi mai a dinamizzare – vivacizzare meglio l’apparente staticità della relazione che complica sempre più il rapporto della coppia. Il teatro di Mirò verte sempre su tematiche di denuncia sociale capaci di infiltrarsi nei rapporti privati ed intimi dei suoi personaggi. È sempre presente la paura, il fattore ansiogeno e lo spavento per qualcosa che deve o potrebbe accadere. Il senso di colpa può assumere la responsabilità di sentirsi vittima ma anche carnefice di se stesso e viceversa. I confini labili dell’inconscio umano sono permeabili ad un interrogativo di fondo che si instilla nelle menti di chi assiste: che sia la società di cui facciamo tutti parte a renderci cosi? Vittime o colpevoli? Il drammaturgo non da risposte (come viene confermato dalle sue parole rilasciate nell’intervista) ma lascia sempre allo spettatore la libertà di decidere e scegliere da che parte stare. Ci si smarrisce alla fine vedendo Nerium Park in cui non emergono quelle emozioni dettate dall’empatia necessaria affinché i due protagonisti riescano a coinvolgere lo spettatore affidandosi ad una recitazione molto convenzionale, se pur fedele al dettato registico ma che avrebbe potuto esaltare maggiormente le tante sfumature psicologiche presenti nel testo.